CASTEL DELL’OVO, NAPOLI
L’ alchimia come metafora, indubbiamente. La ricerca dell’ultimo decennio di Lolita Timofeeva sviluppa percorsi che interpretano i significati fondativi della cultura alchemica: l’unità cosmica e il principio dell’eterno femminino, la mutazione come elevazione, il mistero energetico della vita. Declinati e approfonditi con un registro originale lungo il cammino di una personale ricerca di senso.
E’ il suo avvertimento di un oltre che al di là delle apparenze trama e lievita la vita a costituire, senza implicare una precisa ricerca teologica, il motivo sotterraneo del suo lavoro. Coniugando con una cifra tutta femminile tensione introspettiva e immaginazione, analisi del proprio vissuto inconscio e adesione a quella spinta ri-creativa che apre la vita all’universo parallelo dell’arte.
Di fatto la ricerca di Lolita Timofeeva è sostanzialmente esistenziale. L’artista indaga luoghi e spazi di senso, interrogando e interrogandosi con un forte coinvolgimento fisico e spirituale. A cui lega, soprattutto negli ultimi anni, il bisogno di una condivisione, dando voce collettiva ai suoi progetti e chiedendo frequentemente la partecipazione dello spettatore.
Per questo nell’arte della Timofeeva intuizione e riflessione coincidono. Non solo sul piano operativo, in cui l’artista mette in campo tecniche sapienti, ma altresì in quello espressivo, in cui recupera una sorta di lucidità visionaria e rigorosa, soprattutto nei disegni, che conservano la freschezza e il mistero dell’immagine sorgiva, con il carico anche oscuro delle istanze interiori, che tuttavia vigila e a cui restituisce significato, traducendole in interpellanze d’anima. E’ da queste interpellanze, propriamente, che derivano le collaborazioni con il pubblico, in più d’un caso invitato a continuare il pensiero suggerito come spinta iniziale dall’artista. Operazioni di grande valenza semantica oltre che poetica, giacché i contenuti, rivisitati, diventano il punto di partenza per i lavori successivi, moltiplicando il personale sentire, esplicitandolo e arricchendolo di una espressione collettiva.
Tutto ciò è esemplificato nei percorsi di questa mostra partenopea ( con più di cento opere), che muove dagli anni 2006-2008 con un ciclo pittorico di forte connotazione esoterica. Il riferimento alla tradizione e ai principi alchemici venne rigorosamente studiato da Arturo Schwarz in un bel catalogo edito da Allemandi nel 2011. Lo studioso riconobbe organicità complessa e iniziatica al repertorio di forme simboliche e allusive dell’artista, in cui si rappresentano i luoghi e le figure preminenti della filosofia alchemica: la Soror mystica , lo scambio della pietra filosofale, la donna che estrae dal proprio seno “l’Uovo dei filosofi”( che costituisce emblematicamente il logo della mostra), l’esibizione del terzo occhio – l’occhio del chiaro vedere -, la fonte cosmica dell’energia. La serie, dal titolo “Labor alchymicus”, si completa con alambicchi, vasi, contenitori che assumono forma antropomorfa, unici o sdoppiati, interpretando il legame generativo tra la regina e il suo adepto.
Ma è la serie delle “Riflessioni ermetiche”, del 2008, il vero giro di boa di questa fase della produzione della Timofeeva. Si tratta di carte trattate col caffè su cui l’artista interviene ad inchiostro. L’universo simbolico e criptico dispiegato nelle immagini è suggestivo. Introduce ad una surrealtà onirica, all’inconscio, con figure ricorrenti e misteriose che si assestano come in un teatro dell’assurdo, insieme ironico e drammatico, sfondo un silenzio inquietante e persistente. Ricorrono ancora qua e là i segnali alchemici, anzi in chiave iniziatica potrebbero essere spiegate quasi tutte le figure messe in campo dall’artista, dalla donna radicata nella terra a quella con i capelli arborei, dall’uomo con la testa d’uccello a quella col capo di un manichino. Ma siamo anche oltre, nella realtà di temi contemporanei. La Timofeeva non si applica con intento didascalico. Ritrova i suoi simboli, li rappresenta emblematicamente rimandando ad un sapere iniziatico, ma li rincorre anche con un sentire spirituale , esplorando l’inconscio, la fantasia onirica, assumendo il proprio vissuto come termine ultimo di una verifica d’anima. Chiude il ciclo, nel 2011, la grande installazione “Opus”, in vetro, ferro e legno. Attorno ad un albero si avvolgono simbolicamente forme di vetro che ricordano vagamente le tube di Falloppio, alludendo al principio della vita.
“Metamorfosi”, ciclo di opere del 2013, è in diretta continuità con il ciclo precedente. Il fondamento alchemico è la mutazione. Che qui si carica tuttavia di significati ancora una volta esistenziali e si apre soprattutto ad una modernità di temi e di emozioni. Il bucranio con l’uovo filosofale tra i denti, chiuso in una gabbia, allude forse ad una vita repressa, che anela al cambiamento. E tale cambiamento non può che attuarsi raggiungendo il limite, il punto di svolta in cui occorre morire per rinascere. Il tema della morte, emblematizzato dalla maschera antigas che pare un cranio, viene analizzato dall’artista con cruda e muta capacità introspettiva. Due maschere che vigilano un uovo posto al centro di un piatto dorato paiono alludere al tema amletico dell’essere e non essere. Ma la vita muta, comunque. I materiali mutano, le forme mutano. E nelle mutazioni acquistano nuova esistenza. Alberi e rami prendono forme viventi. Reti metalliche diventano il corpo di un pesce o di un volatile. Nonostante il tema drammatico e implicante una condizione di pensosità, “Metamorfosi” è in effetti il momento della evoluzione e del cambiamento, del dilatarsi dell’orizzonte introspettivo: è guardarsi oltre.
Nel 2011 compare nell’universo metaforico dell’artista una scala. Il tema acquista grande valenza in una importante installazione realizzata nel 2014 presso la Fondazione La Verde-La Malfa di Catania. La scala si configura come salita e percorso di liberazione, ancora una volta un principio alchemico, ma non solo. E’ posta come sospesa in posizione obliqua, orientata verso una parete senza tuttavia toccarla, ispirandosi al vuoto della cima e alla sospensione del tempo che lassù vi regna e alla dimensione metafisica che si apre a colui che sale. I passi sono materializzati da calchi che stazionano sui pioli. Salire è ascendere, ancora una volta è nascere e morire. E’ esattamente in questo senso che l’artista elabora un nuovo progetto, “Meta”, del 2014, in cui nella condizione liminare della cima l’artista chiama a collaborare gli spettatori, invitati a proseguire il primo verso di una immaginaria poesia.
Ancora la dimensione alchemica viene evocata e ancora siamo oltre. Muovendo dal verso “E quando raggiungerò il punto più alto”, l’artista elabora una serie di 13 tecniche miste su carta, accompagnate dai pensieri degli spettatori e da un disegno che ne illustra metaforicamente il contenuto. Le tavole sono talora tramate di fine erotismo, come del resto tutta l’opera della Timofeeva, rifacendosi ad un’dea di energie primitive ed universali, al senso di una generatività cosmica, che fa da controcampo, potrebbe dirsi, alla dimensione pànica dell’esistenza, quale la si avverte e viene documentata dall’artista in cima alla scala, mentre osserva di lassù il mondo tra finito e infinito. Alcune tavole sono bellissime, come Meta 4 , in cui si allude all’umus che sottoterra prepara la nascita, in un misterioso eppure lievitante clima notturno. O quella in cui la felicità è un lento volo di migratori, in alto, verso il sole ( Meta 5).
Il film corto, del 2000, parrebbe a primo sguardo eccentrico rispetto ai percorsi fin qui descritti. In realtà sembra registrare quel clima di paura, letto nel frangente anche come attentato erotico, che nella quotidianità contemporanea interpreta quella condizione di esposizione senza riparo a cui talora è sottomessa la condizione femminile. Condizione emblematizzata in senso più ampio anche nelle ricerche successive, in “Metamorfosi di una sirena”, opere ancora su carta del 2017 , e nelle installazioni di vetro più recenti, i cui elementi si intrecciano con motivi floreali e con una scansione numerica che rimanda alla sequenza di Fibonacci ( recuperando una dimensione misterica, giacché le opere in vetro vengono poggiate su un letto di sabbia, interpretando le figure del quadrato, del cerchio e del triangolo) e soprattutto nella più recente serie intitolata “Ovo”, dedicata tra l’altro al sito in cui si tiene la mostra, il Castello del famoso uovo di Virgilio. Anche stavolta la serie di disegni, concepita come installazione espositiva, è il risultato di una operazione collettiva. C’è un verso guida, riportato in un campo che emerge dall’uovo come sua emanazione: “E quando non sarò più a distillare il mio tempo”. Ad esso gli spettatori hanno aggiunto il loro pensiero in continuità di spirito.
L’uovo, simbolo della vita, è in definitiva il fondamento della mostra. La ricerca cioè dell’origine, rincorrendo le latitudini del mistero. Proprio a Napoli d’altra parte l’artista più di dieci anni fa ebbe l’illuminazione di un oltre invisibile da cui muovere per la sua ricerca, visitando la cappella Sansevero. Da allora la ricerca si è approfondita, ha acquistato latitudini di senso. Oltre la soglia, sempre a Napoli, indaga ora le ragioni della luce.