DOVRAI DIVENTARE UN ALTRO

Di Carlo Monaco


Anno: 2013
Exibition: METAMORFOSI
GALLERIA B4, BOLOGNA

Davvero insolita questa mostra, o forse installazione, di  recenti lavori di Lolita Timofeeva! Insolita e dichiaratamente ambiziosa. Si rivolge direttamente al visitatore potenziale e lo avverte: attenzione che io ti voglio cambiare. Uscirai da questa visita con un’altra forma mentale e morale. Non pensare di cavartela dando una occhiata superficiale e furtiva ai lavori esposti e di esprimere qualche giudizio di gradimento o di apprezzamento più o meno occasionale.  Sarai coinvolto persino in attività creative e di scrittura. Dovrai cambiare forma anche nel tuo mondo interiore, diventare un altro. Quando la vedrai capirai che la metamorfosi non è un processo immaginifico di fantasmagorie, ma la realtà più profonda del mondo e delle cose, e allora dovrai interrogarti e problematizzare il tuo quieto appagamento esistenziale e cambiare anche tu. Sei avvertito in via preventiva.

La prima direzione di questo cambiamento sarà forse la concezione stessa dell’arte. Basta con il superficiale godimento estetico, con il privilegio degli occhi e delle armonie colorate.   L’arte ha bisogno di riscoprire una sua essenziale contiguità con il vivere in generale e più specificamente con quella forma di pensiero direttamente mirato a scoprire la natura nascosta delle cose, il loro instabile equilibrio tra l’apparire e lo scomparire, l’essere diverso pur essendo uguale, o, per dirla con il sapiente Eraclito, quelle interezze che non sono interezze, quel convergere che diverge, quelle consonanze che  suonano dissonanti. Bisogna pur prestare un qualche ascolto  a quelle teorie estetiche, molto evidenti nelle visioni idealistiche e romantiche, e oggi troppo facilmente dimenticate, che assegnano all’arte una funzione pienamente conoscitiva, aldilà del superficiale godimento o della barocca meraviglia. Un’arte filosoficamente pregna.

Ma il cuore della metamorfosi che la pittrice si propone di indurre nel visitatore è la consapevolezza  della natura tragica del nostro esistere. Che coinvolge l’esserci di ognuno di noi, nella sua dimensione temporale, in modo ineludibile.

Le metamorfosi  possono presentarsi in forma ingenua e innocua se toccano solo gli aspetti naturalisti e paesaggistici. Se tutto si riduce alle cangianti forme di luminosità delle albe, dei campi assolati a mezzogiorno, e dei perturbanti crepuscoli e tramonti. Le metamorfosi della tradizione classica, quelle narrate da Ovidio, sono splendide rappresentazioni artistiche che in genere non indulgono al tragico ma forniscono persino un qualche sapore consolatorio. Una ninfa che diventa fonte, un essere umano che viene tramutato in albero, e altre splendenti rappresentazioni di bruchi che diventano farfalle, alla fine ci donano una visione di immortalità quasi dorata che ci incanta come un sogno.

Ma ciò che ci allarma è quel brivido che nasce dalla scoperta immediata che sotto il cambiamento delle forme potrebbe mascherarsi il nulla della soggettività, il suo dasein, come diceva Heidegger, il suo esserci, il trovarsi buttato nel mondo come un naufrago, e  forse anche  il nulla dell’essere umano in generale, l’evanescenza finale del soggetto percipiente e del suo mondo.

E così dalle visioni proposte nella mostra lo spettatore si trova spinto con forza ad abbandonare le  cose che risultino ovvie all’intelletto comune e a scoprire il carattere fortemente problematico dell’ovvietà.

Il brivido del nichilismo ontologico può spingerci fino alle regioni più estreme, quando, nel cuore della mostra, ci imbattiamo in un teschio di uomo o animale, sottratto alla perifericità dell’abbandono ed eretto, al centro di una gabbia, a vero simbolo del cammino biologico animale e umano.

E in quel momento potrebbe coglierci l’angoscia. Potremmo avere l’impressione che sappiamo tutto, chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. Siamo nel regno del nulla. Nati casualmente, persino in violazione delle leggi statistiche della probabilità, all’interno di un universo che non ha alcun senso neppure quando sappiamo che milioni  di anni fa nacque esplodendo da un  grumo non misurabile di densità e di calore che sensitivamente abbiamo definito come big-bang. Sappiamo che entro cinque miliardi di anni il nostro sole collasserà, ma è molto probabile che a quella data la terra sarà morta prima, poco importa se per colpa di un asteroide o per mano stessa dell’uomo con i suoi gas e i riscaldamenti globali. Quello stesso uomo che fino a pochi secoli fa si considerava al centro del mondo, in una realtà tutta per lui, piena di ordine e di dignità.

Ma poi ci mettiamo a pensare, a sperare che non sia così. O forse  ci mettiamo solo a sognare. I sogni antropomorfici delle religioni che ci offrono visioni di provvidenze e di paradisi.  Ma anche i sogni panteistici di un universo che sia immortale nel suo élan vital, eternamente impegnato a superare le sue forme di natura naturata e a porsi come forza di natura naturans, insomma una sorta di metamorfosi perenne, che potremmo persino chiamare Dio, con un impeto di quell’amor dei intellectualis di cui parlava Spinoza o di quell’eroico furore caro a Giordano Bruno.

Queste visioni sono davvero oniriche oppure rinviano all’essenza di un Essere, più o meno recondito o più o meno dimenticato ?

Potrebbe persino aver ragione Platone nel suo mito della caverna, quando ci descrive l’inganno dei poveri prigionieri incatenati  dentro e condannati all’illusione delle ombre che appaiono come realtà. O Hegel nella strada descritta come fenomenologia dello Spirito, o Jung nel suo mondo di archetipi, a modo loro immortali anch’essi. Come sarebbe bello se noi fossimo ignari portatori di messaggi che lo Spirito ci ha affidato a nostra insaputa!

Ma per sciogliere questi nodi noi dobbiamo sempre fare i conti con la morte. Non possiamo cavarcela col giochino di Epicuro: noi e lei non abbiamo nulla a che fare e non ci incontriamo mai, perché quando noi ci siamo lei non c’è e quando c’è la morte noi non ci siamo. Ragionamento bello ma intimamente retorico.

Non credo di essermi spinto troppo in là con discorsi filosofici, qui sommariamente accennati, come se dovessero essere sovrapposti alla mostra in modo meramente intellettualistico. Sarà il visitatore a darmi ragione, se ho ben interpretato il lavoro di Lolita. L’artista si è impegnata con abilità tecniche che padroneggia magistralmente, anche al di fuori delle mode e degli stili accademici, a costruire forme e modi efficaci per produrre uno shock di consapevolezza tragica nel visitatore.

Più che le forme allusive a maschere antigas che appaiono troppo inclini ai cliché di un certo catastrofismo ecologista mi sembrano di altissimo valore evocativo i resti di forme fossili e paleoantropologiche di cui l’artista fa uso in modo creativo e originale. Davanti ad essi  è impossibile non interrogarsi sulla nostra origine e sul senso della evoluzione biologica e naturale, uno sviluppo che si è svolto in forme e su linee tutt’altro che semplici. Anche sugli ominidi è impossibile fare una mappa ordinata delle forme. Molte si sono estinte altre hanno avuto una metamorfosi più moderna e simile a noi. L’umanità preistorica e tutta intera la paleontologia non sono solo un mondo passato ma un monito e un impulso emotivo per il nostro futuro.

Ora, caro visitatore, sei ammonito abbastanza. Non avventurarti ingenuamente nel mondo delle metamorfosi di Lolita. Vai a vedere la mostra raccogliendo prima tutte le tue idee e i tuoi ardori. Non rimarrai deluso, ma coinvolto seriamente, a tuo rischio e pericolo. Potresti alla fine scoprirti anche tu accomunato nello stesso destino di Gregor Samsa, di   risvegliarti scarafaggio, la più tragica delle metamorfosi di cui si sia occupata la letteratura moderna.

Lolita Timoteeva
info@lolitatimofeeva.it