PITTRICE LUNGO UNA LINEA DI TRASGRESSIONI MOLTEPLICI

Di Gregorio Scalise


Anno: 1997
Exibition: LA BIENNALE DI VENEZIA – XLVII ESPOSIZIONE INTERNAZIONALE D’ARTE – PADIGLIONE DELLA LETTONIA

“Ciò che in genere si chiama il carattere romantico di un paesaggio, è il calmo sentimento del sublime sotto la forma del passato.” – scrive Goethe nelle sue “Massime e riflessioni”. Oppure si cerca, sempre in quel paesaggio, il senso della solitudine, dell’assenza, dell’isolamento. Il sentimento romantico cercava nella percezione della natura qualcosa che non era presente, ma lontano, se non assente. Il perché’ di questa preferenza, malgrado il Sapere ce l’abbia spiegato, resta ancora (o almeno in parte) misterioso. Il paesaggio romantico, dunque, si articolava e si presentava come sentimento di un’armonia perduta fra l’uomo e le cose …
Da allora, questa “armonia” si è persa ancora di più e nessuno ormai pensa di ritrovarla, ma gli uomini dell’ottocento si sono provati a stabilire un limite fra antico e moderno, cercando l’antichità nel moderno. “Tutte le opere moderne sono destinate a diventare antiche” – diceva Baudelaire – e da questa constatazione, dolorosamente ovvia, è nato il suo senso del moderno che è giunto sino a noi come fattore estetico per le società moderne e postmoderne, semplici e complesse. Ma la fine della storia, col permesso di Francis Fukyama, rimanda sempre ad un’altra storia: il “liberale” Hegel che il pensiero occidentale sospetta essere il padre putativo della Germania prussiana, aveva già parlato di “fine dell’arte”, intesa come fine dell’era cristiana.
Il pensiero contemporaneo e moderno, anche sotto la minaccia delle varie fini, ha sempre continuato a produrre, pur dibattendosi in mille contraddizioni e contestando persino a Nietzsche la fine di Dio. Il meno che si possa dire (e questo periodo ne è la dimostrazione, se non la verifica) è che le ideologie, i pensieri e l’arte stessa proseguono nei resti, dans le restes.
Una pittrice lettone, che vive in Italia, è, ad esempio, l’indicazione più viva per una trasgressione dei divieti che, nel suo caso sono molteplici.
L’artista (Lolita Timofeeva) è nata a Riga in Lettonia, dove si è diplomata all’Itituto d’Arte, poi ha studiato a Mosca e Leningrado (St.Pietroburgo), e poi è venuta in Italia che per uno straniero è sempre un Bel Paese. Kart Lowith (La mia vita in Germania) ha parole commosse per gli italiani che gli agevolarono il periodo di prigionia e l’aiutarono, o almeno non gli furono ostili, dopo il 1933, data importante per il calendario europeo. Ma, l’Italia di oggi è come quella che ricordava Pasolini o addirittura Arthur Miller nel suo viaggio nell’Europa del sud (Francia e Italia)?
Questa Italia (quella del 1994) non appare, o non appare ancora, nel lavoro della Timofeeva, occupata com’è a ricostruire e sfuggire al tempo stesso dai lager futuristi, dai resti del surrealismo, dai suggerimenti di Kandinskij (come altri presentatori hanno già rilevato), eppure sarebbe interessante interrogare l’artista su questo genere di cose. Lo sguardo del forestiero, si dice, anche se non quello delle avanguardie del novecento, coglie la differenza, lo stile, il clima.
In Lettonia, fino a qualche anno fa, non si è potuto sfuggire al realismo socialista, la più stupida delle estetiche, come si espresse Enzensberger in un convegno di scrittori a Leningrado, proprio a ridosso degli anni sessanta. La natura è quella dei paesaggi nordici, luce pallida, soffusa, boschi, foglie, capanne e si pensa anche ad una soffice deriva della storia. Figure e ottocento, ottocento e figure, l’uomo disegna l’uomo con i tratti che gli competono, gareggia in realismo con la realtà, la verosimiglianza è importante, il cubofuturismo è lontano. Ci penserà “L’arciere dell’occhio e mezzo”. Durante un dibattito del “Fante di Quadri”- racconta Benedikt Livsic – dopo gli interventi di Kulbin (assertore dello sviluppo a spirale dell’arte) e di Davide Burliuk (sul cubismo) prese la parola Natalija Goncarova: una donna con la capigliatura liscia, lo sguardo esaltato, simile alle socialiste del 1905. La pittrice affermò che il cubismo non era cosa nuova, che le donne in pietra degli Sciti, le bambole di legno, il referente gotico del cubismo francese ne erano la prova. Ma l’importante era inventare, non teorizzare. “Gli artisti geniali non hanno mai sopravanzato la pratica con la teoria”, semmai , al contrario, hanno costruito la teoria su opere già compiute. I pittori (religiosi, civili) sapevano benissimo cosa stavano rappresentando e perché. Per questo le loro idee erano chiare e definite. Non è mai indifferente – concluse la Goncarova – che cosa il pittore raffiguri, ed è estremamente importante come lo fa. “L’accenno di questa pittrice – commenta Livsic – non lo raccogliemmo per niente” e tuttavia quel “come” e quel “perché” assunsero negli anni successivi una forma estremamente semplificata e illiberale.
A fine secolo gli artisti (e Lolita Timofeeva con loro) raccolgono l’eredità viva e confusa del novecento. Non resta che seguirne i percorsi in “trasgressione”, muovendosi fra les restes con tutta la delicatezza del caso. La Timofeeva si trova ad essere pittrice lungo una linea di trasgressioni molteplici: ottocento lettone, educazione moscovita, approdo italiano, trasformazione nella trasformazione in questo finale di partita del secolo. La strada scelta è quella dell’oblio di queste esperienze e del loro inevitabile restare in memoria. È l’ultimo risultato del suo lavoro è una forma di falso post-surrealismo dove, l’eventuale ricordo degli oggetti della sua terra, subiscono una tale trasfigurazione che sarebbe inutile andare a cercare tracce etniche o antropologiche.
Lavorando su fondi neri, ella fa apparire il nero in tratti regolari che ora si incorporano spazialmente nella rappresentazione, ora costituiscono lo sfondo di totem senza nome. Una sorte di “tridente” è ricorrente presenza, mentre i “gesti in nero” (ricavati in realtà per sottrazione tonale dallo sfondo scuro) riassumono tracce di una popolazione preistorica probabilmente mai esistita. Il taglio, complessivo, dunque, si rivolge verso un’arcaicità che in realtà è la modernità del novecento pittorico, cubofuturista ed espressivo europeo in senso lato e si ripropone come “resto informale” (in realtà molto formalizzato) di una immaginazione iconografica senza referente. Si lavora, dunque, en plein air.
Questi dipinti tuttavia vanno guardati ed esplorati come una pioggia di resti raffreddati verso una direzione che si configura difficilmente nominabile. Il senso diviene (e non potrebbe essere altrimenti) enigmatico e ha ragione Giorgio Celli a chiedersi, presentando la Timofeeva in mostra a Ravenna (4.2.94), quale sarà il futuro pittorico della pittrice lettone.
Le prescrizioni di Malevic – dice un filosofo che ha scritto di lei, Sergej Shotokin – ci sono quasi tutte: le forme di quadri non devono aver niente a che fare con la natura. Ma non si sfugge. I totem sono riproduzioni astratte della natura o delle sensazioni degli uomini verso di essa. L’uomo arcaico temeva che la natura fosse una maschera e che dietro gli alberi, i laghi e le foglie, i demoni gli tendessero trappole o gli rivolgessero suggestivi e pericolosi inviti.
E se i quadri della Timofeeva fossero appunto dei mascheramenti? Quel senso selvaggio che il suo lavoro indirettamente sprigiona, potrebbe confermarlo. Ma questi totem surreali sono forse a guardia di qualcosa? Vogliono indicare una zona di non oltrepassamento, un no man’s land? Celli ci assicura che la pittrice, non odiando più i suoi maestri, se ne vuole servire, “sorridendo”.
Certo, è probabile. Ma qui si sospetta nientemeno che quel sorriso sia quello di una Gioconda, sia pure di provenienza lettone intrisa di “letizia italiana”. La letizia di questi anni, di questo anno 1994, appunto.

Lolita Timoteeva
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