BIBLIOTECA NAZIONALE RUSSA DI LETTERATURA STRANIERA M.I.RUDOMINO, MOSCA
“Quando trovo
in questo mio silenzio una parola
scavata è nella mia vita come un abisso.”
Ungaretti, “L’Allegria”, Commiato
Scrivo in una sera diversa dalle altre, mentre il giorno si addormenta sui tetti di Firenze come un gatto invecchiato dopo aver fatto l’amore. Fra i vicoli, le strade, i muri ingrigiti dal tempo e offesi dall’alluvione, la città respira gli aromi di una primavera che comincia a guadagnare le rive dell’Arno cavalcando il dolce anelito del tempo che scivola, come una gran dama lungo una scalinata ricoperta di velluto rosso, dal piazzale Michelangelo.
In questa Firenze che sfugge alla cartolina, al souvenir consueto di chi arriva e sciama lungo il Ponte Vecchio, piazza della Signoria, via Calzaiuoli e il Corso, Lolita Timofeeva ha incontrato gli umori più forti di un’umanità vera, il senso di chi è solito vivere come di nascosto alla stessa vita, nel silenzio ingombrante di un’esistenza che rifugge da sempre il palcoscenico, le illusorie, spesso ingannevoli, luci della solita ribalta.
Così sono nati, colmi di inquietudini e significati reconditi, questi dipinti che appartengono alla sua più recente stagione creativa, un tempo segnato da una ricerca più approfondita, diresti persino ansiosa, intorno ai segreti meccanismi che muovono il corso indecifrabile della vita interiore di ognuno.
Tant’è che, nella cruda scarnificazione degli elementi raffigurati, un che di ambiguo, vagamente surreale, feconda illusioni apparenti come, in verità, fossero trame di un racconto di Borges, il cieco che vide Firenze, in un suo soggiorno di una ventina d’anni fa, come nessuno era riuscito a vederla da cinquant’anni a questa parte.
Forse anche lui, come Timofeeva, ebbe a trovare nelle viscere di una città ammutolita dal tempo l’idea di qualcosa che era stato e non sarebbe potuto più succedere: il senso di un umanesimo alto, incapace di lottare con il fango per la salvaguardia delle proprie radici.
“Partorire nella bellezza, diceva Platone: ecco quello che importa. La bellezza è spirito. Bisogna cioè esser sommersi in un’aura, essere pieni, colmi di qualcosa, di non so che specie di sole: ma bisogna che anche l’artista soffra un concepimento e una gravidanza e una liberazione: un figlio strappato alle viscere. Soltanto un’opera di tale significato, che contenga un pensiero, un respiro suo personale, può fendere la resistenza massiccia dei secoli”. (Ottone Rosai, “Il Frontespizio”, Difesa, 1936)
È un merito di Timofeeva averci provato. Il tempo, un giorno, ci dirà se c’è riuscita.
Santo Spirito, marzo 2003