Lolita Timofeeva, ovvero i miracoli di una fervida fantasia adolescenziale.
Di Tommaso Paloscia
BIBLIOTECA NAZIONALE RUSSA DI LETTERATURA STRANIERA M.I.RUDOMINO, MOSCA
Forme rigorosamente compiute che i colori-luce mettono in evidenza e vi esaltano la fonte: una fantasia adolescenziale cioè, vivacissima e tuttavia prudentemente contenuta, nelle conclusioni espressive. Come a dimostrare che i temi di quei dipinti fascinosi sono temi estremamente seri, e che il divertimento afferrabile in superficie affonda le sue radici in una filosofia sostanziale. Ecco, in un pomeriggio dell’estate ancora incipiente ma già torrida, il prestigioso Palazzo Vecchio di Firenze ha visto affollare il suo bel Salone dei Duecento da noti personaggi della cultura fiorentina: vi erano convenuti, malgrado il disagio dell’afa, per assistere alla presentazione di un presicelo libretto del poeta Mario Luzi che, per iniziativa dello storico Caffè letterario Le Giubbe Rosse, ovvero del suo solerte direttore Fiorenzo Smalzi, vi ha ripubblicato diverse poesie tratte dal “Quaderno gotico”, da “Parole pellegrine” da “Su fondamenti invisibili” con l’aggiunta di una lirica inedita “La via di terra per arrivare a te”. Il libro (L’avventura della dualità) contiene testi critici di Sebastiano Grasso e di Raffaele Monti: emerito giornalista e scrittore il primo, noto critico e storico dell’arte il secondo. Comunque, il fatto più atteso era costituito dall’intervento di Lolita Timofeeva che ha illustrato il libro con una serie di disegni a china delicati e intriganti. La presentazione (“Testimone di un connubio”) elegantemente scritta, è di Eugenio Giani il quale rileva che l’esperienza – il connubio fra due artisti – “apparentemente così diversi ma che hanno rapidamente maturato un comune sentire di cui sono involontario quanto onorato testimone”, è stata una esperienza davvero originale.
Operazione compiuta, esito meraviglioso, dunque; la Timofeeva già aveva guadagnando le simpatie del poeta ma anche dei fiorentini perché era stata lei a bussare alla porta di lui: una iniziativa che ha funzionato da grimaldello per far saltare la serratura del prezioso forziere che racchiude la simpatia di Luzi. E dei fiorentini, anche.
L’introduzione specifica dell’evento risale al novembre 2001 quando la pittura di Lolita apparve nel Salone Brunelleschi del Palagio di Parte Guelfa in una personale che doveva suggellare lo scambio di esperienze culturali nel contesto del gemellaggio fra Firenze e Riga, capitale della Lettonia. Era stato il primo sorprendente successo della pittrice a Firenze. L’inizio di un rapporto cordiale con la città e gli addetti ai lavori. Nasce da questo rapporto la stima di un personaggio internazionale quale è Mario Luzi che ha captato ne disegni dell’artista un’istantanea “corrispondenza” con i suoi versi.
Conoscendo i fiorentini e la loro città sono del parere che la Timofeeva abbia mosso nel Salone dei Duecento il passo più importante della sua avventura italiana che pure è punteggiata di ottime mostre personali e di successi. Basta scorrere il testo scritto da Luzi nella breve introduzione all’ “Avventura della dualità” in cui si esalta l’incontro con i disegni e i dipinti dell’artista di Riga: “… era come se la giovane artista applicasse alle circostanze che il mondo le offriva una certezza stilistica raggiunta in astratto per studio e suggestione ma con disponibilità, franchezza, libertà e una certa spavalderia inconsapevole. Proprio questo gioco malizioso era innocente e senza sospetto: davvero mi parve arrivare da altrove. La materia delle sue tele aveva, perché no, conosciuto le avventure e le provocazioni del secolo, ma lo spirito, pur avendo assorbito insieme alle offerte anche le riserve sornione dei luoghi della pittura europea, restava nella sua vena fresca e adolescenziale a sua modo pionieristico, ispirava simpatia…”.
Ad ogni modo, per meglio osservare e conoscere la qualità dell’arte di Lolita, intendo dire lontano dalle suggestioni letterarie e di quelle suggerite dalle manifestazioni celebrative, penso sia necessario rileggere i suoi ritratti che un buon catalogo delle edizioni “Iles Célèbes” di Ginevra raccoglie e tramanda oltre le dispersioni che comunemente accompagnano una mostra personale, soprattutto se intensa e accattivante come quella curata nell’anno 2000 da Valerio Dehò: una raccolta preziosa per osservare tranquillamente il segno, la struttura stupenda e l’evoluzione componitiva, le forme i colori espressi in quei ritratti eccellenti; soprattutto la fine e complessa capacità dell’artista di usare il disegno per tracciare prospetticamente le sue avventure pittoriche riassumendole fino all’essenziale.
E, per gli stessi motivi non trascurerei i protagonisti ritratti nella serie “Maledetti Toscani” a proposito dei quali ritengo utile che uno di loro – il noto poeta visivo Lamberto Pignotti – ha scritto: “Conosco molti dei soggetti che la Timofeeva ha dipinto: si, sono estremamente somiglianti ma non è questo il punto. Il punto è che questi quadri, questi ritratti intendono rappresentare e rappresentano con efficacia delle immagini atte a suggerire una storia; una storia a un tempo reale e surreale, privata e pubblica, preferenziale ed emblematica”.
Il linguaggio e lo stile di Lolita pittrice sono stati analizzati da noti intenditori che ne hanno lodato la creatività e la tecnica insieme; che vi hanno individuato soprattutto la semplicità fluida ed elementare con la quale l’artista realizza le espressioni prevalentemente fondate sull’ambiguità dei significati e della rappresentazione; rappresentazione “scenica” aggiungerei poiché ho la sensazione che la consuetudine illustrativa della Timofeeva sia maturata da una grande familiarità con un tipo di figure manovrate abilmente – sempre più abilmente – nelle rappresentazioni del suo teatro, personale e incisivo, nel quale il surrealismo è invocato a rendere più aderente alla fantasia il rapporto tra la vita reale e la finzione; che sarebbe poi il nucleo essenziale della scena sviluppata nella rispettività di personaggi protagonisti e comparse, del suo ampio dramma surreale. Credo che per questo motivo essa chieda alla pittura di Dalì e magari anche alle divagazioni di Max Ernst impegnato “oltre la pittura” un prestito assai valido per animare quella sorta di bestiario similumano.
Consapevolmente impregnata a servirsi di fattori tradizionali attinti soprattutto dalla fantasia del grande artista madrileno, ma affondano le radici molto più lontano. Persino nelle strutture fondamentali di Paolo Uccello (come suggerisce Raffaele Monti nell’”Avventura della dualità”) filtrandone i suggerimenti attraverso la rapida lettura di una vasta schiera di eccellenti autori del Novecento europeo.
La plasticità delle forme e l’aderenza dei colori vivaci contribuiscono a determinare lo spazio meticolosamente calcolato da Lolita così come accede nella serie delle immagini create per gli “Indoor game”, quasi una novelle sfida all’indiano “Kamasutra”, in tono ironico e pertanto divertente; un’ironia che le conoscevamo già per avere osservato i dipinti esposti nel padiglione lettone della Biennale di Venezia del 1997 e ulteriormente precisata e sintetizzata nelle immagini semplici e quasi simboliche in “Kama Lolita”. L’erotismo nella sua interezza presentata da Giorgio Celli nel 1999. In questo caos si evidenzia l’atteggiamento deciso nella ricerca che mi pare abbia avuto il suo culmine nello “Zarathustra Bestiarium” presentato al Parlamento europeo nel settembre-ottobre del 2002 e nel circolo degli artisti di Faenza appena quest’anno da Marcel Parquet, dallo stesso Celli e da Lino Cavallari: un ardito confronto con l’aforistico “Così parlo Zarathustra” di Nietzsche; tutte imprese impegnative, talvolta persino azzardate, che Lolita ha affrontato in una chiara progressione di esperienze secondo un vademecum rigoroso che nel complesso apre all’osservatore, anche a quello occasionale, l’ampia area investigativa con serissime motivazioni. Finanche nell’“Anatomia di Firenze”, una mostra esibita nel Salone Brunelleschi del Palagio di Parte Guelfa con dipinti dedicati a Firenze in onore della Società Fiorentini a Mosca che in quel giorno era radunata a convegno nella stessa sala espositiva; avevano parlato della mostra il Presidente del sodalizio moscovita e l’assessore Giani: un bell’incontro senza dubbio che costituiva un agile proemio a quanto sarebbe accaduto appena il mese successivo in Palazzo Vecchio. Si era trattato di una sintetica ricapitolazione pittorica della Firenze monumentale in cui al singolo capolavoro architettonico o scultoreo la pittrice accoppiava l’immagine di un cuore umano, vivo, per indicare la funzione che ciascuno di essi esercita nella città: una sottile argomentazione cioè che si insinuava in alcune di quelle esibizioni paracartolinesche per mostrare come egualmente fosse possibile unire a una comune propaganda turistica l’introspezione artistica in favore di una Firenze sorniona e all’apparenza indifferente alle esaltazione delle sue preziosità. Ed anche questo è un merito da sottolineare.
“Trasvolata come una rondine in autunno dal Baltico”: è simpaticamente appropriata la rievocazione della frase che Savinio aveva riferito nel 1921 a Edita Waterowna, divenuta poi Edita Broglio per aver sposato il pittore editore della Rivista Valori Plastici, Raffaele Monti accenna ad un simpatico traslato nel quale viene coinvolta Lolita Timofeeva anch’essa tanti anni dopo, trasvolata dal Baltico nel nostro paese. È un tocco di poesia nella critica che spesso avverte il bisogno di attenervi per dare aria al rigore della sua severità, per rendere totale l’immagine attraverso cui devono filtrare necessariamente la personalità e l’itinerario pittorico.
A giustificare, documentandolo, le affermazioni del poeta toscano, del professor Paolucci Sovrintendente ai Beni Culturali, di Janus, di Cavallari… tutti concordi nella valutazione positiva di un’arte che ammicca con una certa simpatia alle espressioni pittoriche con le quali ciascuno di noi ha convissuto. E che rappresentano le cose più ricordevoli di un’epoca non ancora tramontata insieme con le indicazioni pur perentorie fornitoci da quell’intramontabile e severo segnatempo che è il calendario.
Firenze settembre 2003