Gli animali di Lolita Timofeeva

Di Marcel Paquet


Anno: 2002-2003
Exibition: Zarathustrae Bestiarium Parlamento Europeo, Bruxelles Circolo degli artisti, Faenza

L’opera di Lolita Timofeeva affascina per la spigliatezza con la quale si inserisce nella tradizione del surrealismo e la vivifica, le conferisce una nuova giovinezza, le apre ancora e sempre delle prospettive inedite. Si potrebbe credere che abbia attinto la vena animalista che da Esopo a Ovidio, da La Fontaine a Georges Orwell ha attraversato la letteratura europea e ha permesso a tanti autori di caricaturare e denunciare i difetti umani, attinto il potenziale critico delle pitture proposte con questo spirito dal corrosivo Max Ernst, il vigoroso André Masson, oppure ancora tanti rappresentanti della pittura metafisica italiana, che come Savinio o più vicino a noi Carlo Guarienti, hanno dipinto animali per permettere di percepire forze inquietanti che, segretamente, animano gli esseri umani.

Gli animali immaginari di Lolita hanno in comune di essere funestati da una certa fragilità; non sono dei mostri terrificanti: una sorta di scimmia che ha un po’ del maiale, del topo e anche del cammello, rivela che la sua coda e il suo sesso formano un tutto, come le sue gambe e le sue braccia, e questa strana impotenza fisica la condanna a una timorosa infermità che invita lo spettatore a un sentimento misto, fatto di divertimento e compassione, di imbarazzo e repulsione. L’aquila di Zarathustra, che potrebbe essere anche colui che fu il segno fondatore della civiltà azteca, porta attorno al collo un serpente, ma oltre la sua testa a forma di glande e la sua coda che esce in mezzo alle zampe da uccello, il rosso di cui è dipinto gli dà un allure di sciarpa per freddolosi, e l’associazione dell’animale più terrestre e più prudente, con il più fiero e il più celeste, non comporta qui alcuna nobiltà asseverativa: si tratta di un’alleanza mancata, di una sorta di ridicola cilecca. Il pesce sulle zampe con il naso a forma di fallo e la gallina con il corpo d’uovo, da cui emana un viso maschile, non sono assolutamente meglio assemblati della macchina da guerra con le tette acuminate, la propulsione delle quali non poggia che su un piede o che il cerbero siamese, i musi del quale sono costretti a combattersi. Il leone, forse di Venezia, con la criniera formata di foglie cadenti e il satiro con le orecchie d’asino, non hanno il mezzo per le loro ambizioni erotiche. Il drago multiplo è interamente ripiegato su se stesso e come caricato del carattere imbevuto della sua persona poco equilibrata e di cui si indovina l’andatura più pesante che graziosa. Tre corpi di pollo per due zampe e uno struzzo che non ha per testa indagatrice che un glande scoperto, riescono a convincerci che gli animali frammentari, fatti di oggetti parziali strappati a delle serie di esseri incompatibili, non sono lì per cantare la gloria di una cultura che avrebbe per sé la sicurezza dell’Eternità. In questa serie di tele c’è un umorismo edulcorato, ma più inquietante di quanto non sembri al primo sguardo. Oltre a disordinare le filiazioni naturali, tanto quanto i simboli culturali, oltre a prendersi gioco delle capacità riproduttive e dei poteri creatori, l’arte di Lolita Timofeeva, tramite un uso un po’ “anarchico’ del rosso e del nero, sembra volere formare un corpo unico con il caos, non per districarlo o glorificarne l’assoluta sovranità, ma solo per sottolineare tutta la precarietà delle nostre categorie mentali, delle nostre certezze morali e dei riferimenti che strutturano i nostri sentimenti.

Cosa bisogna vederci? Come fare per non considerarli altrettanti specchi di noi stessi questa vetrina di animali vanitosi, crudeli e comici? Come non cogliere anche che sotto le costruzioni umane più sicure e più potenti tuonano forze folli che ridono dei nostri pensieri e delle nostre azioni? Come non capire che Lolita Timofeeva non vede né l’vvenire radioso dietro al quale capita che la nostra Cultura si trinceri, né la profondità e le ipotesi serie delle migliori costruzioni intellettuali: fossero esse incise sulla roccia o scritte a grandi lettere sulla pelle del cielo? Si può considerare vana questa mostra, sospettarla anche di nichilismo aggravato, ma sarà sempre al prezzo di non voler interrogare con questa i fondamenti della nostra condotta e dei nostri pensieri. Sarà sempre al prezzo di non voler interrogare il nichilismo che è dentro di noi e non ci lascia far prendere dal nulla per l’essere o sciocchezze e dogmi, per la Ragione e la Giustizia.

L’arte di Lolita Timofeeva fa pensare, forza a farlo o a tentare di farlo, perché queste pitture molto nevrotiche si appigliano alle nostre idee più prestigiose e ci trascinano in una sorta di delirio insidioso che prende a rovescio i codici della nostra coscienza E’ una pittura pericolosa, comunicativa, disturbata e disturbante, come il cervello degli uomini e lo squilibrio del nostro mondo.

Lolita Timoteeva
info@lolitatimofeeva.it