Prima di soffermarmi sul “Bestiarium Zarathustrae”, che con piacevole e quasi sorridente surrealismo intende richiamare i guasti di noi contemporanei sospesi sul baratro, vorrei riscontrare o rivedere, ma non più di tanto, alcune impressioni riportate di fronte alle opere mostrate al pubblico da Lolita Tìmofeeva oltre dieci anni fa, allorché il suo impatto con la cultura visiva europea messa di fronte al suo originario impianto basato sull’allora imperante realismo sovietico produsse immagini astratte, meccanicistiche, quasi a raffigurare una laboriosa digestione. Mi sembravano avvenuti, nel tempo, frequenti cambiamenti di contenuto; ma forse così non era, perché una continuità di fondo è rimasta sempre presente.
Era sconcertante, allora, apprezzare matasse di visceri cibernetici disposti in una labirintica successione. Un po’ più avanti il puzzle si allargò a figure intere, quasi del tutto costituite da forme note dell’oggettualità materiale: dal lato maschile pancia vacua riempita da un volante d’auto, torace come una “console” di playstation, genitali fatti come il terminale di una pistola erogatrice di benzina, testa come una scatola racchiudente microchips; anche dalla parte di lei un organismo artificiale con snodi e un capo da robot, dotato di un grande led per le risposte sensoriali. Insomma, umanoidi dall’eros raffreddato, algido, incapace di suscitare qualsiasi brivido nei due esemplari della sessualità contrapposta, dai piedi a forma di pennino. Spesso lo sfondo di inenarrabili bagarres allegoriche era cupo, sulfureo, talvolta consapevolmente mostruoso. Con finta ingenuità la Tìmofeeva, da poco giunta dalla natia Riga, in Lettonia, ma dotata di acuta intelligenza (dal latino intus legere, ossia capacità di leggere all’interno) giovandosi di una simbologia scontata, attribuiva passioni umane a manichini da accademia, per significare l’impossibilità di un impulso naturale che non fosse un mero atto replicativo, senza amore. Un disagio congiunturale, si pensava con un briciolo di sottaciuta sufficienza. Eppure questa rabdomante della pittura, nonostante gli slanci della sua giovane età e il contributo delle sue piacevoli forme fisiche (che più tardi incantarono anche il vitalistico regista Bigas Luna, incontrato per la prima volta nell’annuale mostra-mercato internazionale di Bologna e poi conquistato dall’opera della Tìmofeeva tanto da scriverle un testo di presentazione per una mostra nel Museo d’arte moderna a Palma di Majorca ed instaurare una cordiale corrispondenza) era stata una lungimirante profetessa degli sconquassi allora sommessamente accennati ed ora deflagrati nella coppia umana, così da costituire sui “media” redditizie palestre per chiacchierate di psicologia e sessuologia, dal momento che sembra essersi affermato il cyborg-amore, esplicato in solipsistiche “chats” di internet piuttosto che nelle normali vicende dell’attrazione erotica. Vengono in mente – coadiuvanti di molto precorritori, ma anche parecchio ingenui – I’ “Orgone box”, cioè la cabina rigenerante e scatenante orgasmi, dello scrittore underground americano William Burroughs, tante volte citata anche dal suo amico sradicato e beatnik Jack Kerouac, le macchine inutili e autoerotizzanti dello scultore svizzero Jean Tinguely, oltre a una certa crudeltà del faustiano Bulgakov. E povero anche il sociologo Francesco Alberoni (“Innamoramento e amore”) teorizzatore della umana fascinazione allo stato nascente, non consumata dall’abitudine, che fin dall’antichità ispirò l’amor cortese per cui si persero Tristano e Isotta, Ugo e Parisina, Paolo e Francesca, Abelardo ed Eloisa! Nel migliore dei casi, oggi la coppia in preda a un “coup de coeur’” va subito al sodo e, se non esiste la corrispondenza di uno dei due partner, la relazione si risolve spesso in un fattaccio di cronaca nera
Basta, forse non è il caso di ripercorrere tutte le tappe di questa splendida artista che ama la letteratura di tutti i paesi e da essa trae ispirazione. Voglio soltanto accennare che di questa congerie di elementi eterodossi Lolita Timofeeva si è progressivamente depurata pur mantenendo i loghi essenziali della mascolinità e della femminilità, per dedicarsi alla ritrattistica, su cui torneremo, e ultimamente a fogli di calligrafismo astratto nella monocromia acquerellata del grigio per commentare visivamente le sensazioni in lei provocate dalla parola e dal verso di sensibili poeti, il toscano Mario Luzi per esempio, così da vedersi aperte nuove prospettive a Firenze, con i suoi palazzi merlati e turriti, dalle cui facciate si aprono squarci immaginari ed escono visceri palpitanti, stavolta anatomicamente perfetti, come a significare agguati mortali all’arte e alla vita. Ma, guardando retrospettivamente, è doveroso rilevare che ormai i “loghi” sessuali erano divenuti assai più intriganti nella tridimensionalità del vetro con le sue trasparenze e i suoi colori che non nella riservatezza della pittura, come si apprezzò nella mostra itinerante promossa dalla Berengo Fine Arts di Venezia, che fece tappa anche in Olanda. Gustose scandalosità d’artista, per palati fini non per il volgo. Così come un momento importante è stato anche il periodo “Kama”, della simbologia erotica indiana, che generò anche un book di disegni per amatori del genere, una specie di libro dei mutamenti del “lingam’ e della ‘yoni’ su cui l’etologo Giorgio Celli spese fervide parole nell’emiciclo degli incontri col pubblico di una delle edizioni passate di “Arte Fiera’. Il ritratto, si diceva Come dimenticare l’autorappresentazione allegorica eseguita al modo di Tamara de Lempicka nel ’97? La Timofeeva, vvolta da sinuosi fiori di calla campeggia di tre quarti fra un ricco panneggio che le scopre la schiena, mentre in un riquadro (forse uno specchio?) una pretestuosa figurina, forse un “alter ego”, allude ad un’ulteriore ibridazione, costituita com’è da elementi vegetali ed elettronici. Un udito fine potrebbe percepire anche un sospiro o un pianto fra tutta questa eleganza. La de Lempicka è stata come un faro: fra gli estetismi russi di San Pietroburgo, le turbolenze francesi e italiane (fu, come oggi si dice, in confidenziale amicizia anche con D’Annunzio) entusiasmò perfino l’America con la sua arte, tanto che persistono delle scuole ispirate al suo stile. Non poteva mancare di fornire un pretesto anche alla pittrice lettone. Ma, infilandosi con indifferenza ora nel sublime e ora nel casual, la Timofeeva ha ritratto se stessa anche nell’atto di mortificare un abito elegante, cioè appoggiata con le braccia ad un umilissimo cassonetto dei rifiuti. Inoltre, con i suoi pennelli, ha infuso vita e spirito alle figure più rappresentative di Bologna e di Firenze, caratterizzate dalle prerogative professionali, deposte ai loro piedi.. Pure se in alcuni casi la precauzione risultava puramente didascalica, ricercando lei l’introspezione, al di là della bella fattura.
A questo al di punto, con i sobbalzi fervorosi della mente, mi è gradito ricordare una intera mattinata trascorsa, tanti anni fa, in una sala dell’Ermitage di San Pietroburgo (allora Leningrado) dove stetti a rimirare unicamente la fiammeggiante e fantasiosa immaginazione di Hieronymus Bosch nei suoi tempi di transizione fra il Medio Evo e l’età moderna. In queste tavole, pervase da una millenaristica certezza nella fine del mondo, fra piaghe, pestilenze e turpi cupidigie animali bizzarri errano in mezzo ai reietti della terra, rendendo più tragici i fuochi di devastazione, le impiccagioni e gli assassinii. Bosch, senza saperlo, nella sua pittura profetica aveva anticipato di parecchi secoli gli attuali aborti viventi, come le mucche pazze dal cervello ridotto a spugna, le pecore Dolly dalla lingua blu, i bambini raeliani clonati. Forse l’illustre fiammingo Bosch, insieme con Pieter Bruegel il Vecchio, anche per la Timofeeva, è stato un punto di riferimento. C’è da dire, inoltre, che negli anni ’70 e ’80 – periodo d’oro del surrealismo – s’impose a Torino, con una buona propagazione anche in Belgio e in Olanda, ma con frequenti visitazioni anche a Bologna, dove il surrealismo padano godeva di ottima estimazione anche per merito di Romeo Forni, della sua galleria “Studio 5” e dell’esauriente saggio “Padanìa fantastica”, il gruppo dei “Surfanta” (acronimo di Surrealismo Fantastica Arte): otto o dieci visionari capeggiati dal pittore e grafico Alessandri, che si diceva fosse un “papa nero” nella città sabauda crocevia dell’occultismo, come Praga, Parigi e New York.
Nella “Soffitta macabra” di Giaveno, nell’hinterland torinese, questi artisti avevano fondato una specie di manifesto, pubblicando anche una rivista. La loro motivazione era quella di riscoprire il “fil rouge” che univa la capitale piemontese con i Paesi Bassi, ricreando stili e culture che si perpetuano nell’ombra. Un bel manipolo di originali. Alessandri in particolare creava mostriciattoli che non avrebbero nulla da invidiare a quelli delle figurine che piacciono tanto ai bambini, sgorbi della natura che facevano corona a ragazze discinte che più belle non si sarebbe potuto. Se Lolita fosse stata più grande in età e li avesse conosciuti, sarebbe stata sicuramente una “surfanta”’. Ma non vale cercarli, adesso: sono quasi tutti morti, e i rimanenti dispersi per le strade del mondo. Forse, senza saperlo, Lolita ha agguantato un capo del filo rosso che potrebbe misteriosamente condurre fino a loro. Come ultima notazione per questo “Bestiarium” che annovera draghi e basilischi, triple galline siamesi che hanno in comune due zampe, pesci variegati e altre bizzarrie (che possono acquisire il valore aggiunto del gioiello o della tridimensionalità della statua vitrea) vorrei ricordare che il filosofo e naturalista bolognese Ulisse Aldrovandi in età rinascimentale era affascinato da piante ed animali delle più lontane parti del mondo e pagava numerosi corrispondenti che gli inviavano descrizioni e disegni di esseri che poi si sono rivelati delle solenni “bufale”, prese per buone ed inserite nella sua “Historia animalium” in 13 volumi. Per esempio egli credeva fermamente nell’Unicorno, un equino che aveva un corno a spirale Anche sul muso, in gallinacei dalla coda di vacca e via discorrendo.
Anche in questo caso, se Lolita fosse vissuta fra il 1500 e il 1600 avrebbe potuto benissimo ingannare i criteri metodologici empirici di Aldrovandi offrendogli la descrizione di animali esistenti soltanto nell’Utopia, cioè in nessun luogo. Ma Nietzsche e il suo “Also sprach Zarathustra”, al di là di ogni “boutade”, peraltro patrimonio del carattere ironico ma fermo di Lolita Timofeeva, ha rappresentato nella lista delle sue letture un importantissimo momento di riflessione sulle contraddizioni e sulle lacerazioni che oggi caratterizzano il mondo. E, di questi tempi, sembra ancor più amara della “vanitas vanitatum” di Qohélet l’Ecclesiaste, secondo cui la storia è senza senso e ogni cosa nel mondo è nulla, la teoria dell’eterno ritorno espressa da Zoroastro o Zarathustra, il mitico essere della mitologia persiana: “Tutto ciò che fu è frammento, enigma, caso spaventevole; finché la Volontà creatrice aggiunge: così io volevo che fosse, così io voglio che sia, così vorrò che sia”.