CIÒ CHE L’OCCHIO DELL’ARTISTA HA MANDATO INDIRETTAMENTE A MEMORIA
Di Eugenio Miccini
PALAGIO DI PARTE GUELFA, FIRENZE
Confesso che quando Lolita, questa bella ragazza Lettone, mi ha chiesto se poteva farmi un ritratto ho ceduto, certamente per vanità , alla tentazione (dopotutto, se me lo ha chiesto voleva dire che le serviva) e ho lasciato fare: mi sono messo in posa per un fatidico “clic”. Sì, perché si tratta di una posa breve, per uno scatto fotografico. Pensate a quando i ritratti si facevano su tela con colori a olio e tanto di tavolozza e i pennelli. Quante ore dovevano stare in posa quei tutto sommato privilegiati signori!
Certamente la fotografia aveva ormai mandato in pensione il ritratto, lo aveva de tutto sostituito.
In realtà – almeno in questo caso – ha sostituito solamente la posa perché la diabolica Lolita usa niente meno che entrambe le tecniche, cioè quella pittorica e quella fotografica. Tecniche che, stando a quanto scriveva Walter Benjamin, nel famoso pamphlet “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” si avvantaggerebbero l’ina l’altra. O, più precisamente, se ne avvantaggerebbe il pittore che prima di dipingere abbia avuto esperienze fotografiche. Lolita (l’ho spiata mentre mi squadrava anche lei di sottecchi) studia velocemente il soggetto, esegue qualche fotografia con pose diverse, magari suggerendo alcune particolari posture. Poi si chiude nel suo atelier bolognese e dopo una serie di studi (disegni in bianco e nero, bozzetti, saggi preparatori, ecc.), passa alla pittura.
Ma perché proprio cercare un “pretesto” letterario per mettere insieme degli intellettuali toscani, ritrarli ed esporli in una mostra e in un libro? Non bastava alla Timofeeva la sua indiscutibile bravura, la sua pazienza? Eh no, ci voleva un titolo, qualcosa che giustificasse la raccolta e l’esibizione, che insomma fosse più di un pretesto: i toscani hanno un carattere di spicco, ironico fino al sarcasmo e all’ingiuria, insomma una personalità irripetibile, forte e … “maledetta”. L’ha detto Curzio Malaparte. Il quale, in un libro scritto I’ anno prima della morte (“Maledeffi Toscani” – Vallecchi, Firenze 1956) aveva raccontato – nemmeno troppo malignamente – i nostri vizi e qualche nostra virtù. E lui che, dopo aver girato il mondo in lungo e largo, aveva dettato questo epitaffio per la sua tomba, collocata in cima olla collina di Spazzavento (Prato): “lo son di Prato, m’accontento d’esser di Prato e se non fossi nato Pratese vorrei non esser venuto al mondo”. Dunque, anche lui e maledetto!
Sono stato alcuni giorni ospite della villa che Malaparte si fece costruire su un promontorio roccioso di Capo Massullo, a Capri, proprio davanti ai faraglioni e intervenne più volte per modificare il progetto dell’ architetto, fino a farla diventare – come ebbe a dire lui stesso – la “casa come me” e cioè la “casa matta”, assai diversa dal consueto, nonostante il suo stile (quello solo della casa) chiaramente “razionalista”.
Ma torniamo olla Timofeeva. Chissà se Lolita di questi caratteri avrà rivelato qualcosa, che magari sia sfuggito al congelamento dell’immagine (o alla sua compressione) che solitamente fa un fotogramma?!
Ho visto, prima di scrivere questa nota, qualcuno di questi ritratti. Alcuni più diafani, altri più corposi. Nessuna tecnica umana di riproduzione, se non proprio la copia meccanica, può dirsi impassibile, specialmente quella pittorica, che anzi, come qui, imita direttamente l’immagine fotografica ma indirettamente ciò che I’ occhio di Lolita ha mandato a memoria.
Guardando, ad esempio, il regista Giancarlo Cauteruccio (immagine “densa”) qualche suggestione ce la da di persona composta di meditazione e decisione; la poetessa visiva Lucia Marcucci (immagine “ariosa”), invece, di persona pensosa e delicata; il poeta Mario Luzi sereno, grave, consapevole …
Al momento di scrivere non conosco ancora il mio ritratto. Chissà quale particolare avrà sottratto e scorporato dalla mio immagine. Già, di ogni persona Lolita ha isolato un particolare: una mano, anzi un gesto, un emblema araldico, libri o colonne di scritture, o un’ opera, formando cosi di ogni autore un dittico invertito, cioè due tele accostate ma non in sequenza. L’ operazione ovviamente rimandata, in una sorta di suggerimento metonimico, dalla personalità a una sua peculiare pratica o competenza.
Grazie Timofeeva dell’omaggio che hai reso a noi e anche a questa “stramaledetta” citta.