Bestiario di Zarathustra

Di Giorgio Celli


Anno: 2002
Exibition: ZARATHUSTRAE BESTIARIUM PARLAMENTO EUROPEO, BRUXELLES CIRCOLO DEGLI ARTISTI, FAENZA (2003)

Un pittore che decida di confrontarsi con la propria perizia, traducendo in immagini gli aforismi di quel libro fiammeggiante che è il “Così parlò Zarathustra” di Federico Nietzsche, deve subito decidere che un’opera simile non la si può illustrare, ma soltanto rivivere. Che si può solo, in parole povere, farla propria e ripercorrerla da capo a fondo. non come una semplice esperienza di lettura, ma di vita. Mi sembra che Lolita Timofeeva abbia scelto una sorta di antidoto contro questo necessario e totale coinvolgimento, una distanza emotiva dal libro, scegliendo di trattarlo alla stregua di un Bestiario, e dunque di ritradurselo in una sorta di zoo privato, svelando quel corteggio di creature non umane che incontra ed evoca Zarathustra nel suo pellegrinaggio tra gli uomini.

Questi esseri, a quattro zampe, volanti o striscianti, sono chiamati ad assolvere, volta per volta, il compito di metafore, di allegorie, di simboli, e talvolta di promotori del racconto.

Che Zarathustra sia un libro che si ispira, nella stesura, ai Vangeli e alle Sacre Scritture, non è opinabile, perché si tratta del viaggio tra gli uomini di un predicatore venuto dalla solitudine, una montagna o un deserto poco importa. E che sia un predicatore ‘”imprecatore”, un corruttore e non un moralizzatore, non altera per nulla la specularità tra i due modelli letterari. Ma “come” gli animali? Ho usato la parola Bestiario, e non a caso. Sopra tutto perché i Bestiari non erano, come ingenuamente si credeva ai tempi del positivismo, degli abbozzi minimi dei futuri libri di zoologia scientifica, ma la loro natura più autentica era teologica, se non addirittura catechistica, e gli animali servivano solo, con i loro comportamenti, per lo più inventati, a deplorare i nostri vizi e ad esaltare le nostre virtù, indicando agli uomini le vie della salvezza. Del pari, la zoologia di Zarathustra, se così possiamo chiamarla, è messa al servizio della predicazione, per cui spiazza del tutto l’opzione scientifica, adottando le credenze e i pregiudizi popolari.

Gli uccelli e gli orsi sono i simboli di quella libertà primordiale, di cui l’uomo ha smarrito le chiavi. Il lupo evoca il fantasma della fame, che gli fa divorare perfino le carogne. li cammello è il paziente servitore dell’uomo, dal quale deve emanciparsi, diventando leone e sconfiggendo il drago. L’aquila che vola al vertice del cielo, suggerisce le ellissi del pensiero, e il serpente – come non pensare al tentatore dell’Eden?- è il suo compagno nella peripezia aerea, ed è la metafora di quella conoscenza con la quale l’uomo brama e insieme teme di confrontarsi.

Lolita Timofeeva è una pittrice che viene dalla Lettonia, e che, nelle sue prime opere, aveva praticato una singolare alchimia estetica trasformando le immagini della cultura popolare del suo paese, le decorazioni dell’artigianato, in complesse costellazioni di segni astratti e di geroglifici pittorici di sorprendente pregnanza visiva. L’incontro con il surrealismo, che era quasi di prammatica, visto l’interesse di questo movimento per l’arte popolare e primitiva in genere, ha costituito per lei il punto, non solo di svolta, ma di sostanziale arricchimento di creatività. Dedita dapprima alla ‘dissacrazione’, come si diceva un tempo, dei tabù sessuali, fabbricatrice di creature ambigue e lubriche, fissate sulla tela e modellate nel vetro, dopo una breve esperienza ritrattistica, si è dedicata alfine alla messa in immagine degli animali di Zarathustra.

Evidentemente, ci troviamo di fronte a una operazione surrealista, ma, si faccia bene attenzione, non di un surrealismo “prima maniera”, che sarebbe ingenuo, ma di un surrealismo rivisitato, e simulato, di un parasurrealismo, o per dire ancora meglio, di un manierismo del surrealismo, per cui i dati immediati dell’inconscio, per parafrasare Bergson, sono posti sotto controllo razionale, e impiegati consapevolmente e cinicamente.

La cosa curiosa è che il libro di Zarathustra sia risultato disponibile, visti i risultati pittorici ottenuti dalla Timofeeva, a una escursione nel surreale, e sopra tutto in un surreale che, alla fin fine, si emancipa dai modelli d’origine, attraverso un po’ di sano umorismo. Forse, il tentativo più consistente, di annoverare il superuomo di Nietzsche al superuomo prometeico del surrealismo storico, è stato messo in opera, con alterne fortune, da Michel Carrouges (La mystique du surhomme, 1948), ma da una prospettiva ben diversa e, dal mio punto di vista, fallimentare, identificando Zarathustra con Prometeo.

La Timofeeva, più semplicemente, entra nel libro attraverso la breccia degli animali, edificando, per chiamare in causa un illustre archetipo, sempre presente, Jeronymus Bosch, uno “zoo delle delizie”, un museo di ritratti zoomorfi che salta a piè pari lo steccato di Breton e di Dalì, per approdare felicemente alla dimensione estetica, sospesa tra citazione e ironia, del “postmoderno”.

Lolita Timoteeva
info@lolitatimofeeva.it